Napoli, 4 Ottobre 2021 –
Molti parlano di razzismo, ma forse lo fanno per un senso di buonismo o perché fa moda, ma per poter davvero esprimere il concetto devi provarlo sulla tua pelle e solo allora capirai veramente cosa si prova ad esserne vittima e quali sono le caratteristiche del razzista.
Il razzista è sostanzialmente una persona il cui campo visivo è molto ristretto, un po’ come i cavalli quando gli mettono i paraocchi. Conosce poco la vita e la sua mente è male allenata alla diversità in generale. È alquanto intransigente, si infastidisce per abbigliamenti diversi, corporature diverse, persino il suo udito è poco allenato a tonalità della voce differenti dalla sua.
L’istruzione c’entra poco, ho conosciuto persone laureate molto razziste, e analfabeti accogliere chiunque, credo invece che l’educazione ricevuta sia a livello familiare che scolastico, sia un fattore determinante. Nella mia carriera di insegnante e anche come madre, infatti, ho sperimentato che nei bambini non c’è razzismo finché non sentono da un adulto o qualcuno più grande di loro, qualcosa di discriminatorio.
Prova ne è un disegno fatto da mio figlio Matteo in prima elementare. La maestra aveva detto di disegnare l’amico del cuore e lui lo fece. Il suo amico vedendo il suo ritratto, gli disse che aveva sbagliato e che non doveva colorarlo di marrone, ma rosa ed iniziò a piangere. Matteo tornò a casa e molto dispiaciuto, mi raccontò l’accaduto. R. era il suo migliore amico e non voleva farlo piangere, ma non poteva neanche colorarlo di rosa se la sua pelle era marrone. Matteo vedeva solo il suo amico, ma R., un bellissimo bambino mulatto, a soli sei anni, aveva già avuto modo di sperimentare che il colore della sua pelle lo rendeva un diverso.
Feci capire a mio figlio che la cosa più importante non era il disegno fatto correttamente ma accontentare il suo migliore amico.
Sapevo cosa stava provando quel bambino, l’avevo vissuto anch’io e non per il colore della mia pelle ma per essere meridionale. Mi ero appena trasferita al nord e nelle due scuole dove insegnavo, mi ero imbattuta in due razzisti di eccezione, il preside in una e un collega di italiano in un’altra.
Mai avrei pensato che degli esseri umani potessero essere così crudeli, persino chi, meridionale come me, sapeva cosa si provasse ad arrivare dal sud, non mostrava un minimo di umanità o accoglienza, meno che mai schierarsi a mio favore. Il preside odiava i meridionali, e non risparmiò nulla neanche a me. Ebbene origliava dietro la porta per “accertarsi” che stessi lavorando, a volte mandava la figlia che era in seconda media a “controllarmi”, quelle rare volte in cui mi assentavo poiché iniziai a soffrire di violenti mal di testa, mi telefonava a casa minacciandomi.
Nell’altra scuola invece un collega di italiano, non sapendo che io fossi la persona di cui stava parlando, iniziò ad inveire contro di me alla mia presenza. La collega di matematica alla quale lui si stava rivolgendo, sbiancò e cercò in tutti i modi di metterlo a tacere, ma lui continuava inferocito dicendo che ora neanche i preti facevano più stare in pace e che una meridionale aveva preso il suo posto. Inizialmente mi sembrava impossibile che stesse parlando di me, anche perché parlava in dialetto bresciano, ma visto che lo capivo, dovetti accettare la dura realtà, stava insultando proprio me.
Visto che non avevo lezione uscii dalla scuola e corsi fuori a piangere disperata, non mi era mai accaduto di sentirmi diversa, tantomeno di essere attaccata da qualcuno perché meridionale. In quel momento come R. dalla pelle marrone, avrei voluto essere nativa del luogo, ma per fortuna questa mia debolezza durò poco.
Fiera delle mie origini e nonostante la mia giovane età e il fatto che fossi praticamente sola contro tutti, decisi di affrontarli entrambi.
All’ennesima telefonata del preside gli dissi che se solo mi avesse ancora telefonato per minacciarmi lo avrei denunciato, mentre per il collega, approfittai del primo consiglio di classe. Mi sedetti proprio di fronte a lui, che imbarazzatissimo guardava ovunque, ma mai nella mia direzione. Come un cane che ha fiutato la preda e non molla, lo fissai per ben due ore, finché finita la riunione, alzai le spalle e mi avviai verso l’uscita.
Lui mi raggiunse cercando di giustificarsi dicendo che io avevo travisato le sue parole non conoscendo il dialetto. Mi voltai e con molta calma gli risposi che lo conoscevo perfettamente e mentre lui farfugliava qualcosa, aggiunsi che l’unico mio vero dispiacere era nel sapere che uno come lui, un “uomo di cultura”, avrebbe dovuto insegnare ai ragazzi cose come il rispetto per gli altri, di cui non conosceva neanche il significato. Lo lasciai con un palmo di mosche in mano e andai via soddisfatta.
Se solo le persone capissero quanto può essere doloroso un loro commento stupido o ancora di più l’indifferenza di fronte a delle persone che arrivano da altri luoghi e stanno già vivendo grossi disagi, se solo capissero che allargare i propri orizzonti non può che portare ricchezza…